II necroforo, sotto diverse vesti più o meno ufficiali, ha sempre occupato un ruolo ben distinto nelle pratiche funebri e di sepoltura dei morti anche se, per molti secoli, il contatto con il corpo del defunto era esclusivamente riservato ai suoi più stretti familiari. Il termine necroforo dal verbo greco νεκρόφόρος composto di "necro" (νεκρό / morto) e "foro" (φόρος / portatore) indica esplicitamente la persona deputata al trasporto dei morti, alla loro sepoltura.
Nel Medioevo, quando l’esperienza della morte ritornò a rappresentare un evento pienamente accettato e socialmente condiviso dall’intera comunità, la
sepoltura del corpo spettava esclusivamente ai familiari del deceduto; il compito del becchino, che solitamente era una persona povera o un mendicante, era semmai quello di scavare la fossa, mentre la gestione del cimitero era affidata esclusivamente al prete.
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Trionfo della morte, Palazzo Sclafani, Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo (1446) |
Tra il 1347 e il 1352, però, la peste nera (parte 1 e parte 2) colpì tutto il continente europeo decimandone la popolazione; questo flagello obbligò alcune persone ad occuparsi, dapprima estemporaneamente e poi in modo sistematico, del trasporto dei morti e della loro inumazione o cremazione. Fu in questo periodo che la figura del necroforo, come conseguenza del suo costante contatto con i defunti, cominciò gradualmente a strutturarsi come un vero e proprio mestiere e anche la sua diffusione crebbe sempre di più. Tuttavia, insieme alla sua affermazione cominciò a mutare drasticamente anche il modo in cui esso veniva percepito a livello sociale, richiamando su di sè una forte carica di superstizione e stigma; a causa del costante contatto con i cadaveri, si ritenne che la persona deputata a questo compito portasse sfortuna. A testimonianza di queste credenze vi è la variegata declinazione, nel corso dei secoli, del termine necroforo nei diversi dialetti regionali della penisola, che indica questo mestiere con parole spesso ingiuriose: schiattamuorto, cacciamuorte, pizzegamorto, campusanteri, beccaio, affossatore, seppellitore, fossore, etc. L’appellativo che però ebbe più popolarità, tanto da resistere ancora oggi nel linguaggio comune, fu quello di becchino o beccamorto. Questo termine pare derivi dalla pratica del medico condotto che, per constatare l’avvenuto decesso della persona, era solito infliggere dolore pungendo in modo deciso il corpo del deceduto; se il malcapitato fosse stato ancora vivo non avrebbe resistito al dolore e si sarebbe mosso oppure avrebbe urlato; beccare il morto significava quindi scovare chi fingeva di essere defunto e chi invece era morto davvero.
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Abito del medico durante l'epidemia di peste |
Un’altra mansione del becchino, in questo periodo, era quella di vagare per le campagne ed i boschi nell’intento di recuperare i corpi delle persone decedute per poter dare loro una sepoltura; ciò accadeva essenzialmente per questioni legate alla salute pubblica, ma non si può escludere che venisse fatto anche per compassione nei confronti di persone morte in estrema solitudine. Durante la pestilenza del Trecento, i medici della peste erano soliti indossare una lunga veste nera cerata ed una maschera rigida con un grosso naso a punta per proteggersi dal contagio del morbo; anche i becchini si dotarono di una divisa che consisteva in una mantella lunga e nera con un cappuccio che terminava a punta, denominata becca. Quando si bruciavano i corpi di persone morte a causa di una epidemia, i becchini mettevano sul volto una maschera contenente spugne imbevute d’aceto ed essenze profumate per impedire l’inalazione di cattivi effluvi.
É dunque nel Medioevo che, sostanzialmente per ragioni di forza maggiore, viene a crearsi questa famigerata nuova figura professionale, diremmo oggi, che tuttora viene accompagnata da un alone di superstizione legato al fatto che avere a che fare con i morti, per qualcuno, significhi ancora sfortuna e sventura.
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